Venerdì 25 novembre, si è svolta a Roma, una manifestazione femminista, contro la violenza sulle donne. Senza voler entrare nelle polemiche sulla questione del patriarcato, come origine di questo fenomeno sociale, aperte dalle dichiarazioni della sorella di giulia Cecchettin, vogliamo sottolineare come lo stesso movimento femminista, sia spesso due volte vittima, la prima della violenza sulle donne, che le colpisce ovviamente in quanto tali e la seconda di sè stesso, nell’accettazione inconsapevole degli stereotipi maschilisti che dice di voler combattere. Abbiamo, infatti, riscontrato, nelle dichiarazioni di una di loro presente alla manifestazione di Roma e riportate dall’edizione online di Open, una sorta di autogol dialettico. Ecco cosa l’esponente femminista ha dichiarato: «La scelta dell’abbigliamento non è stata casuale, molte indossavano la minigonna, altre pantaloncini e alcune solo il reggiseno senza maglietta. Era una sorta di provocazione perché noi abbiamo paura di andare da sole la sera in metro in minigonna. Questo non va bene» perchè parliamo di autogol dialettico? Perchè, a nostro avviso, questa dichiarazione, avvalora l’idea che le donne, vengano stuprate o molestate, in base a come si vestono, che rappresenta proprio uno degli stereotipi maschilisti, che spesso vengono portati come giustificazione nei processi penali per violenza di genere, come descrive bene il libro intitolato «Cosa indossavi?» scritto da Iacopo Benevieri cha abbiamo utilizzato come foto copertina ed a corredo dell’articolo.
In pratica, per anni abbiamo combattuto, anche giornalisticamente, contro il «Cosa indossavi?» consapevoli, anche scientificamente, che l’abito non è la causa degli stupri e che ricondurre tutto al vestirsi, è una forma di colpevolizzazione delle vittime, queste “simpatiche signorine” si rifanno anche loro a tale concetto, individuando nel vestirsi la causa dei loro problemi. Insomma, siamo, come detto, di fronte ad un evidente autogol dialettico, da parte del movimento femminista, a parziale giustificazione del quale, tuttavia, portiamo la tesi di un altro libro intitolato «Critica della vittima» scritto da Daniele Giglioli nel 2014 che afferma l’evidenza del fatto che la nostra società possa essere considerata a tutti gli effetti come «l’era delle vittime».
In un passo del suo libro, Daniele Giglioli, afferma che: «Essere vittime dà prestigio: impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto ed autostima.» Insomma, è come se il ruolo di vittime, imponesse alle donne una sorta di assunzione di un ruolo che le mortifica ancora di più anzichè emanciparle. A sostegno di tale ipotesi, vi è anche un terzo studioso, il sociologo Jonathan Simon, che sostiene che: «La vittima, ha sostituito il cittadino titolare di inalienabili diritti individuali come soggetto di riferimento della legislazione e la vittima è per definizione un soggetto debole, che chiede protezione anche a costo di perdere la propria libertà.» Si tratta dunque, a nostro avviso, di un problema culturale da entrambe le parti in causa, quella maschile, ma anche quella femminile, sul quale occorre lavorare per costruire una società senza violenza, pur nella consapevolezza che la violenza in generale, non solo quella contro le donne, è insita nell’essere umano, quindi davvero difficile da eliminare.
Paolo Miki D’agostini – Luca Monti
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